È sempre più diffusa l’abitudine di utilizzare sul lavoro termini anglosassoni. A volte sono utili, ma certe esagerazioni portano al ridicolo.
A noi del frankenstein, si sa, piacciono le parole straniere.
Soprattutto se sono inglesi o, ancora meglio, americane. Soprattutto se finiscono in –ing o, ancora meglio, se per pronunciarle dobbiamo muovere la bocca come se l’avessimo riempita con un intero camion di chewing gum.
Ci sentiamo molto fighi e molto addetti ai lavori quando parliamo di branding, di visual merchandising, di marketing mix, di franchise fee, di royalty, di “franchise meneger”, di “bisness developer”, e chi più ne ha più ne meeting… L’importante è che non ci chiedano di raccontare, in italiano e con chiarezza, che cosa facciamo.
L’altro giorno uno che mi è stato presentato come responsabile sviluppo franchising di un noto marchio, mi ha spiegato il ruolo con parole sue: «Deve sapere, Savelloni, che il nostro brand è molto franchise oriented pur operando nel fashion.
Siccome uso un mix con poco recruiting e molto scouting per generare leads, mi si potrebbe definire più un business developer che un franchise manager.
Io non faccio screening sul franchisee, ma mi baso sulla location per definire il target del nostro client che non può essere mai low profile.
Dopodiché attuo un recruiting process a 20 steps per realizzare il matching ideale per il nostro franchise concept».
Intanto che parlava, io facevo la traduzione in tempo reale: «Siamo disperatamente alla ricerca di affiliati. Io batto i marciapiedi delle vie della moda di tutta Italia e se vedo uno con un bel negozio gli sto addosso a tal punto che quello firma il contratto di franchising e ci stacca un assegno solo per togliermi dai piedi…».
MORALE: La competenza non si misura nel numero di parole straniere che un addetto ai lavori sa mettersi in bocca. Recruiting o recotting, quello che conta è la sostanza.